Erano i primo anni Ottanta, frequentavo le scuole medie e per due estati ho accompagnato il nonno, assieme a mio cugino Renato, a Recoaro Terme. Dopo di allora vi ero passato quasi casuamente solo un paio di volte, negli anni Novanta una domenica pomeriggio e qualche anno fa per un convegno nel grande salone delle Fonti. Ero rimasto con la voglia di ritornare con più calma nel luogo dei ricordi di ragazzino e così ho convinto mia moglie Sabrina ad accompagnarmi in un nuvoloso sabato di agosto. Questo articolo non è quindi una recensione turistica del paese, sono solo suggestioni personali…
La gita è partita da Recoaro Mille, perché il cartello, arrivando in auto da Valdagno, invita a salire. Sono le 11 del mattino e le terme chiudono alle 12.30, poi riaprono alle 15.30: tanto vale andarci direttamente al pomeriggio. Così, si sale. Ed è una sorpresa: pochissime auto e case, molto verde, rupi a strapiombo che mettono un po’ d’ansia: dove stiamo andando? Se non fosse che vi sono già stato, ricordo (vagamente) cosa c’è in cima, mi preoccuperei: ci sarà qualcosa? E qualcosa, quando superi i tornanti e compaiono le prime villette, più o meno tutte chiuse (chi verrà a passare le vacanze qui, anche se siamo in agosto?), c’è. Prima tappa: la stazione di arrivo della rinnovata cabinovia che sale dal centro di Recoaro (andata e ritorno: 7 euro). Ti accoglie un bar ristorante stile grande chalet che ha un menù interessante; c’è un paio di mappe geografiche non troppo chiare ma che alla fine, una volta interpretate, danno l’idea di dove siamo. La vera Recoaro Mille è più in su, solo un paio di chilometri: chi sale dal paese con la cabinovia deve scarpinare per raggiungerla. Azzardiamo due ipotesi: la prima è che qui salga solo chi vuole fare un’escursione a piedi o viene per mangiare godendosi il fresco e il panorama. Seconda ipotesi: non è una cabinovia per “salire” ma piuttosto per “scendere”, perché chi è quassù in vacanza possa andare giù in paese a fare la spesa, o andare a messa la domenica, e poi tornare su risparmiandosi decine di tornanti all’andata e altrettanti al ritorno.
Ripresa l’auto, a Recoaro Mille ci arriviamo davvero e scopriamo la bellezza della conca, la seggiovia che sale tra le nuvole che coprono le cime in alto, che restiamo con la voglia di vedere (ci torneremo certamente, in tenuta adatta per un’escursione), leggiamo le cartine delle piste da sci e da fondo. Se c’è neve, soprattutto per gli appassionati del fondo, qui deve essere un mezzo paradiso.
Mangiamo, respiriamo e poi scendiamo scoprendo che ci sono malghe e agriturismi e ci saranno certamente sapori da scoprire, la prossima volta; ma oggi la meta è un’altra. E a Recoaro arriviamo, parcheggiamo ai piedi della sallita termale che tante volte avevo fatto da ragazzino e la prima cosa che facciamo è cercare l’hotel dove nonno Amedeo ci portava. La prima impressione è un po’ stralunata: il posto è quello ma è deserto. Sono le due di domenica, è naturale, i “termalisti” dormono. Fa un po’ nostalgia vedere qualche grande albergo chiuso, un paio con il cartello “Vendesi”. Magari c’erano anche allora… io ricordavo un paese allegro e vivace, pieno di anziani sì, ma colorato. Certo, oggi un paese termale che offre acqua da bere e qualche terapia non può “tirare” come un tempo, ci vuole altro per competere con le spa. Ce ne saranno, qui e là, nella vallata, di spa, o ci saranno solo alberghetti e pensioni? Cercheremo su internet, una volta a casa. In compenso, ci sono cartelli ovunque che promuovono i gnocchi con la “fioretta”, un prodotto di malga (oggi a marchio Deco) residuo della lavorazione del burro. E c’è una vetrina che mostra una stanza che sembra (lo è?) una cucina di un tempo: è il modo in cui si promuove un’azienda locale che produce insaccati. Ottima idea! E, insomma, a Recoaro si mangia, non si beve solo.
Puntiamo decisi al “mio” hotel e ci vuole poco: ricordo bene la strada per arrivarci. Si chiama “All’Isola”: non è pubblicità e non sono pagato per citarlo, lo conferma il fatto che ci arriviamo e lo troviamo chiuso. Non sarebbe un ricordo completo, però, se non ne scrivessi il nome. Chissà se dentro sarà come 35 anni fa: all’esterno è diverso. Non che io abbia grandi ricordi, ma la discesa che porta al torrente, il sentieretto pedonale di fronte, ci sono comunque ancora. Tempo di una foto e via: nei pressi scopriamo una pasticceria – posso dire il nome? Cestonaro – di cui ci attraggono i dolci in vetrina, confezionati, produzione propria. Ci ispira la Chiocciola, ma è troppo grande per noi. Compriamo un Tronchetto alle mandorle e frutti di bosco, così, sulla fiducia: ben riposta. Complimenti. Peccato non aver assaggiato la Chiocciola… la prossima volta. (Suggerimento: prevedere che un turista interessato possa assaggiarne un bocconcino dei dolci locali potrebbe essere un invito all’acquisto).
Scendiamo alla piazza e c’è ancora il cinema che dava spettacoli anche al pomeriggio, dove io e mio cugino ci rifugiavamo spesso. Nella chiesa troviamo un presepe permanente, molto bello, che ricostruisce il vecchio paese, e una moderna vetrata altrettanto interessante. Altre opere contemporanee sono nella cappellina. Ma, se parliamo di arte, più che altro colpisce qualche bell’edificio liberty che ricorda il passato “glorioso”, immaginiamo un’epoca d’oro delle terme tra l’età asburgica e le due guerre mondiali (anche se a scoprire le acque termali fu, nel 1689, il conte Lelio Piovene che diede nome alla fonte Lelia… l’acqua dal gusto ferroso!) Affascinati da questo, scegliamo di fare una sosta al Caffè municipale, che ci accoglie deserto quanto grande, ricco di divanetti e arredi d’epoca (forse troppo perfetti per essere veri) che fanno sospirare ai vecchi momenti in cui doveva essere pieno, si faticava a trovarvi posto, e nel grande salone attiguo si tenevano intrattenimenti e danze. Chissà, forse non è mai stato così, forse lo è ancora ma non certo alle tre del pomeriggio: nei ricordi di bambino non trovo nulla che aiuti. Però c’è una serie di manifesti che annuncia per l’indoman una serata di ballo promossa dal locale: ma non qui, nella piazza che sta alle spalle, oltre il torrente, ai piedi della partenza della cabinovia, che si ridesta sonnacchiosa proprio ora, conto otto passeggeri in circa un quarto d’ora. E due vigili che guardano i parchimetri delle poche auto in sosta: ti chiedi come può venire in mente di multare chi viene qui a dare lavoro alla vallata, che a quanto pare ne ha proprio bisogno, rischiando che la prossima volta per ripicca non torni più…
Ore tre e mezzo, riaprono le terme. Riattraversiamo il centro e torniamo al parcheggio, aggiorniamo il parchimetro e saliamo: non dal vialone principale, c’è un altro sentieretto proprio accanto a noi, ma è lasciato preda dell’erba, le scalette sono piene di foglie e altro ancora. O lo chiudi, o lo tieni pulito: capisco l’esigenza che qualcuno giri a far multe, ma se qualcun’altro prendesse una ramazza non sarebbe male. È una località termale, il look non è tutto ma quasi (solo un’associazione di idee: spa… beauty center… benessere e bellezza). Pazienza. Arriviamo al vecchio ingresso delle terme e, oops, non c’è più: ci dicono che una frana in alto ha reso rischioso il passaggio, non ci sono soldi per intervenire così si sale dall’altra parte del piazzale. Dicono che è la Regione Veneto che dovrebbe, ma non vuole investire. Ci informeremo. Procediamo: e di fronte ci si para una spettacolare palazzina liberty abbandonata e chiusa tutto attorno da una rete, intonaci e stucchi in alcune parti stanno crollando. Un vero peccato, direi di più ma non è il caso. Di nuovo: il liberty potrebbe essere l’anima di questo posto, pieno di potenzialità, che potrebbe giocarsi un’immagine tra passato e presente, tra favola e realtà. Ma se gli alberghi storici cadono a pezzi e il liberty va in malora, è come leggere una poesia senza versi… sarà pure letteratura, ma non è poesia.
Un tempo si pagava anche solo per entrare al parco: ora scopriamo che, almeno oggi, all’ingresso non c’è nessuno e si sale liberamente. Nel piazzale termale, a sinistra, uno straniero ha aperto la sua bancarella: sarà di certo autorizzato, io ho il ricordo di negozietti lungo il viale vecchio, ma non ce n’è più traccia. Rimane solo questo ragazzo con tavolino e un ombrellone a ripararlo dalla pioggia annunciata ma che per fortuna (sua e nostra) oggi non cade, e un bar all’altro lato del salone delle feste, dove ricordo una serata di spettacolo presentata nientemeno che da Mike Bongiorno. Altra epoca.
Di fronte, le fonti: da un lato la reception per chi fa le cure, naturalmente dietro prescrizione medica. Al centro, la mescita dell’acqua: chi non ha pagato il ticket può comunque accedervi, con cinque euro, biglietto giornaliero. Un tempo, al pomeriggio, si pagava ridotto; non sarebbe previsto ma, quando chiedo un biglietto solo per me, la cassiera si accorge che siamo in due e ci dà spontaneamente due bicchieri. Perché, ci spiega, è nostro interesse che proviate e si capisce che probabilmente non è solo perché le siamo simpatici, è normale fare così. Ottima pensata: ma non si potrebbe rendere ufficiale che al pomeriggio si paga la metà? Evidentemente ci saranno validi motivi per preferire delle “eccezioni istituzionalizzate”. Però mi piace il clima familiare, che un po’ ritrovo anche nei ricordi di un tempo: la cassiera conosce quasi tutti quelli che passano, ci scambia due battute, consiglia tutti e saluti alla signora che oggi non è venuta. Insomma, siamo quasi come a casa. Unico neo: ci consiglia le toilettes sbagliate, quelle accanto alla reception. Due per i maschi e due per le femmine, un buco con lavandini comuni: in un posto così, dove si beve acqua tutto il giorno ed è pieno di anziani, solo questi? (ce n’è un terzo solo per i disabili, a onor del vero) Poi scopriamo da soli che sotto il grande salone c’è una scaletta con una datatissima insegna bagni-docce che porta a ben più confacenti servizi igienici, che però (almeno oggi) pare non conosca nessuno.
Il tempo ora è brutto e rininciamo a girare per il parco e per altri ricordi che affiorerebbero, preferiamo rifare un salto in centro adesso che aprono i negozi (e scopriremo che alle cinque il paese si risveglia!), c’è spazio solo per una veloce visita al bunker antiaereo tedesco che oggi la Pro loco tiene aperto: e veniamo a sapere – ma solo nella mostra dentro al bunker – che a Recoaro tra il 1943 e il 1945 si alternarono vari comandi militari, molti ebbero sede negli hotel ma il principale era proprio alle fonti, e che furono scavati numerosi bunker. Gli alleati bombardarono e distrussero gran parte dell’area termale, cercarono invece di risparmiare il paese e in gran parte ci riuscirono. Peccato che da nessuna parte se ne parli: la Storia, anche se dolorosa, è una risorsa e va trasformata in tale senso. Io suggerirei di esibirla un po’ di più. Quanti veneti sanno che Abano fu sede del Comando italiano durante la Grande guerra? Pochi, anche in epoca di centenario… e quanti conoscono questo pezzo di storia di Recoaro? Ancora meno. Però, se si nominasse Salò tutti vi direbbero che lo conoscono, anche se non saprebbero dirvi il perché. Il marketing turistico lavora anche su queste cose: che se magari non interessano agli italiani, non è detto che non interessino invece agli stranieri, che potrebbero, per questa via, arrivare a scoprire che a Recoaro ci sono anche acque uniche al mondo.
Sono stato lungo, mi fermo qui. Io a Recoaro voglio tornare, non più in cerca di ricordi: è una località ricca di spunti e che incuriosisce, le sue montagne non sono da meno e si ha la sensazione di essere in un luogo in bilico tra passato e futuro ma pieno di potenzialità. A presto, spero.
Emanuele Cenghiaro