Ruggero Pagnin – Conversazioni sull’arte (2)

A cura di Sofia Tisato

Ministoria della pittura

I quadraturisti dovevano studiare a lungo gli elementi dell’architettura, a partire da Vitruvio[1], nei trattati che portavano alla capacità di indicare i vari punti di osservazione. Inizialmente era assonometrico, verso l’alto, poi furono introdotti diversi punti d’entrata, da dove far girare la prospettiva, perché risaltasse più  all’occhio la tridimensionalità. A partire dal Rinascimento, con la scoperta della Domus Aurea[2], c’è un rifare il verso all’antichità, dapprima sepolta e poi riscoperta grazie anche allo studio della lingua greca. Amo i nostri Greci, io mi sento un Greco… Era tutto un fiorire, una rinascita di valori; Michelangelo copierà l’Ercole[3]. E i modelli vengono ripresi dai Greci. La stessa Pompei dà le indicazioni delle prospettive. Molti pensano che la prospettiva nasca con i Toscani, da Paolo Uccello[4] a Piero della Francesca[5], oltre a Brunelleschi[6] con le sue costruzioni. In realtà non hanno introdotto nulla di nuovo, semplicemente hanno guardato indietro.

Nel Cinquecento abbiamo qui in Veneto Veronese[7] e Fasolo[8], che diventarono dei modelli imitati un po’ da tutti. Ricevettero commissioni di ville private per imposizione della Serenissima, andarono in giro per l’Italia, lavorarono anche a Roma. Le capacità d’illusionismo prospettico affascinavano al punto che, mentre in Europa la decorazione delle chiese era stata abbandonata per effetto della Riforma protestante, in Italia con la Controriforma ci fu un’impennata di esibizione, un arricchimento. A Roma Andrea Pozzo[9], un gesuita, introdusse lo sfondato nelle chiese. Ma gli affreschi che ammiriamo non sono nulla di diverso dagli encausti[10] romani, con scene mitologiche: rendevano quasi le pennellate grasse dell’encausto, realizzato con la cera. Nel Seicento, in piena età barocca, permaneva l’innamoramento per l’antico, quindi ci fu il colpo di coda nel Settecento; una vera esplosione, anche nelle stesse riquadrature. Le linee divennero molto sinuose, un mistilineo completo che sostituì la moderazione precedente nel quadrare. Nel Settecento abbiamo il Winkelmann[11], gli scavi di Pompei e gli inizi di quel Romanticismo che predilige le rovine. I pittori arrivavano da tutta Europa.

I vedutisti

La veduta nasce con il discorso del Tour, ma ha origine molto prima, dalle possibilità offerte dall’ottica fiamminga. Olandesi e Belgi lavoravano le lenti e ne facevano mercato in tutta Europa. Lavorare con una lente applicata è un’idea molto vecchia, non si sa bene quando sia nato l’uso della camera ottica. Basta rimanere in una stanza buia d’estate, con la luce del sole che penetra forte da fuori, magari attraverso un forellino: l’immagine entra e si ferma rovesciata su un vetro smerigliato, o con polvere. E così facevano i vari Vermeer[12] e Van Eyck[13]. Di Brueghel dei Velluti[14], ad esempio, c’è alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano un dipinto su seta, saranno 20 cm x 15, si può ammirare con la lente: un gruppo di personaggi sembra in posa  davanti a un fotografo, e davanti a loro sono posti a terra oggetti di tutti i tipi, dagli elmi col brillio sul ferro ai drappi, con i disegni della stoffa… Con una lente! Van Eyck era degli stessi anni del nostro Masaccio[15], però sembrava più avanti, perché l’ottica rendeva i fiamminghi molto indagatori. E’ proprio l’indagine che porterà al rinnovamento.

I vedutisti erano rivolti all’Illuminismo, in pieno Settecento, età degli Enciclopedisti. Canaletto aveva una metrica tutta sua: non rispettave le linee dei legni nelle gondole, nei barchini, nei sandoli, le imbarcazioni ritratte sulla laguna veneziana. Al legno visto anche mosso, in diagonale, dava ugualmente l’orizzontalità anche se si trattava di un errore. Nelle fughe, inquadrando il Palazzo Ducale da una certa distanza, per prendere in diagonale la Riva degli Schiavoni, faceva degli errori, ma erano voluti; anziché dare l’inclinazione a scendere, rendeva la gronda dei merli del Palazzo Ducale parallela alla linea del dipinto. E’ una scelta che deriva dalla necessità di non forzare: l’occhio a volte chiede quel che la natura non dà. Oppure praticava il basculaggio dei campanili: abbassava la loro altezza perché portavano ad un vuoto eccessivo, avremmo avuto un cielo che esagera. Allora tendeva ad arrivare fin quasi all’orlo del quadro, tant’è vero che l’anteo del campanile di San Marco veniva pressoché soffocato dal bordo della cornice, per cercare di accorciarlo. Canaletto non è l’inventore di queste tecniche, prese dai vedutisti; uno di essi era il Vanvitelli[16], autore di vedute romane, che proveniva da dove venivano tutti i “Van”, dai Paesi Bassi.

La camera ottica

Ho usato spesso la camera ottica, ed ho costruito anche degli episcopi, che sono sostanzialmente la stessa cosa. Prendiamo il modello custodito al Correr.

La camera ottica ha un foro d’entrata, la lente potrebbe anche non esserci. La luce entra da lì, incontra uno specchio a 45°, inclinato perché spinge l’immagine in alto, come nelle macchine Reflex. E io guardo dentro, e vedo esattamente il paesaggio che si riflette fuori. Questa è da viaggio, piccolina, per prendere degli appunti, e si usa come una macchina fotografica; la Rolleflex aveva esattamente lo stesso concetto. Con una matitina vado sopra a quel che si vede; per fermare la carta sul vetro un po’ di empirismo, in modo che non si muova. Quando abbiamo il disegno, possiamo poi creare una specie di carrellata, in più sequenze, creare un paesaggio disteso. Una volta che abbiamo accumulato tutti questi foglietti, in studio li passiamo su carta con un pantografo in legno, o su carta oleata con la quadrettatura. L’immagine viene portata alla misura di scala con cui si deve eseguire il dipinto, unendo i vari foglietti; ne esistono interi quaderni del Canaletto.

La camera chiara

La mia camera chiara è un astuccio come quello dei compassi, nero, con il velluto rosso dentro, ed una serie di rettangolini di lenti: alcune convesse, altre concave. Dentro questa specie di stiletto sono delle rotelline che allungano, e accorciano; tu lo metti in piedi con un morsetto tutto cromato, bellissimo, e lo fissi sul piano da cui devi trarre il disegno. Alla sommità di quest’asta sottile c’è un prisma; avvicini un occhio e sovrapponi ciò che vedi alla visione dell’altro occhio, quindi fai quel che devi fare di un paesaggio, di un ritratto.

Scorcio e veduta

Lo scorcio è un paesaggio, solitamente un misto di natura e di paese, o una chiesa con il suo campanile che svetta; se il soggetto ha un’importanza civile, perché è commissionato dalla gente del posto, prende il nome di “veduta”. C’è la veduta a volo d’uccello oppure quella ad orizzonte basso, come faceva Canaletto, presa dal livello di una barca. Ho eseguito delle copie delle vedute del Costa, una villa Giovanelli presa dal canale in fuga in fondo. E’ l’attenzione ad un luogo che noi maltrattiamo, che non è nemmeno visto, se uno non va a pescare.  Mentre il turista che arriva a Noventa lo stima: vede meglio solitamente chi viene da fuori, e vede di più le cose buone, mentre noi per stupidità e ostinazione a pensare che non abbiamo niente di buono, niente di bello, ci sottovalutiamo. La veduta deve avere una certa efficacia nel prendere negli elementi compositivi, come facevano anche gli Alinari, che realizzavano le fotografie di Padova con sapienza formidabile, con delle macchine a soffietto: erano la stessa cosa delle camere ottiche.

I Veneti e il colore

La pittura più bella è quella veneta, e non lo dico perché sono veneto. Gli altri si vantano del disegno, c’è il famoso detto «Se…al disegno di Michiel Angelo aggiontovi il colore di Tiziano, se gli potrebbe dir lo dio della pittura»[17]. Tiziano magari non aveva certe altre cose, però in alcuni dipinti ha mostrato un ottimo disegno, nell’impostazione dell’opera stessa.

I Veneti avevano proprio il colore. La pittura veneta nasce dall’abitudine, oltre che dalla possibilità di una committenza ricca, dell’arte del mosaico. Quando devi costruire un’immagine a mosaico che abbia un tutto tondo, lo ottieni sempre grazie a campiture piatte, cioè creando l’ombra con delle tessere più scure. E’ come quando ingrandisci un’immagine a computer: i quadratini, i pixel, sono piatti, ognuno con un colore determinato. Tiziano faceva un po’ il verso al mosaico: «Se do il colpo di luce quasi scontornato da una determinazione molto viva…» che abbia un perimetro, come una macchia, «ho un essiccato maggiore!» E allora nella rappresentazione delle stoffe, invece di rendere uno sfumato, che avevano invece gli Umbri, i Toscani, la scuola romana, dava una pittura più secca, più determinata. Per cui aveva anche la capacità di leggere e di comporre delle tinte a gradazione tonale: dei marroni che non si erano mai usati, tinte che spingono altre tinte: oltre il verde, il giallo, il blu, nel discorso dei complementari. Tiziano aveva una tecnica particolare, semplice: se voleva illuminare un manto rosso non lo mescolava con il bianco, perché bianco e rosso danno il rosa; in trasparenza utilizzava una spalmatura con un verde, un giallo, un blu.

Come impostavano i Veneti? Con pochissimi colori facevano tutto, bastava che avessero una forte fissità, cioè che non si alterassero. Meno l’affresco si scuriva e alterava,  più potevi fare affidamento nella durata dell’opera. Era una tecnica che i Veneti praticavano con l’osservanza di un chimico, e avevano anche i loro segreti. Per Tiziano era una bestemmia considerare un dipinto fatto e finito. Lo girava, lo abbandonava, passava del tempo, lo rigirava, lo riprendeva… E i committenti a volte protestavano; arrivavano dei messaggeri a minacciarlo: «Guarda che i Gonzaga sono arrabbiati, è arrabbiato il re di Spagna!» Allora prendeva in mano il quadro e lo finiva, ma malvolentieri. Sarei anch’io così.

Antonello da Messina[18] andò nei Paesi Bassi e scoprì la pittura ad olio che Van Eyck usava, ma Venezia fu il luogo in cui la tecnica si sviluppò. Veronese usava un’impostazione a tempera: in un primo passaggio dipingeva la stesura, poi finiva sopra ad olio. L’olio era usato negli stendardi, nei gonfaloni, nei labari di stoffa, poi però nacque la grande pittura dei teleri, proprio a causa del salso che rovinava l’affresco. Tintoretto stesso si faceva realizzare delle misure enormi.

Pittura e fotografia

Ho ereditato le camere ottiche dallo studio di un altro pittore, Carletto Ravagnan, che lavorava dagli anni ’30 in Calle Spadaria, dove si facevano le spade. A più di ottant’anni soffriva di Parkinson ma eseguiva lo stesso degli acquerelli formidabili. Lo facevo arrabbiare perché gli rubavo i colori, ma poi mi diceva: «Tutta questa roba sarà tua!» intendendo lo studio e il materiale.

Il nostro lavoro consisteva nel dare a chi non aveva nessun supporto d’immagine di una città splendida, di ordinare un dipinto, portarsi a casa Venezia. Le Venezie dipinte per i turisti erano molto diffuse fino all’Ottocento; i pittori copiavano il Canaletto, soprattutto quello anziano dell’ultima maniera, piena di riccioli, che costituiscono la sua cifra stilistica. Già nel suo periodo inglese c’è questa stilizzazione continua, in modo quasi matematico.

Nacque la fotografia, Nadar[19] fece esporre nel suo studio gli Impressionisti. Perché proprio loro? Perché dipingevano in un modo scandaloso, tant’è vero che si creò un passepartout apposito per legare i  loro colori troppo vivaci alle cornici. L’avvento della fotografia sembrò la morte di un mestiere: scomparivaono il pittore di corte, il pittore di campo, che eseguiva le battaglie osservando da un’altura, il ritrattista di famiglia… Il dagherrotipo divenne il calco della realtà. Le enciclopedie, i bestiari, i testi di botanica sostituirono con le foto le illustrazioni che dovevano rappresentare gli elementi. Diversi pittori si suicidarono, altri andarono a fare i fotografi. C’era anche chi aveva il vezzo, come Michetti[20], amico di D’Annunzio, di dipingere sopra le fotografie: oggi si fa qualcosa di simile con il computer, stampando la tela e passandoci sopra.

La fotografia ha tolto al pittore il mestiere di testimone. La pittura sociale dell’Ottocento, quella ispirata al verismo che presumeva di riprodurre la realtà, creava grandi scene, come la regia in un teatro. I soggetti erano pietosi, spaventosi: la mamma morente, il pauperismo… L’Ottocento socialista, che rappresentava la miseria, le città dei poveri. La fotografia, se anche fosse esistita, sarebbe stata limitata. Non avrebbe fatto vibrare un’atmosfera a colori, in bianco e nero com’era, ma non solo: la sapienza di un pittore dà un tutto tondo che la macchina fotografica non può raggiungere. Un ritratto fotografico è un bidimensionale molto povero, mentre la bidimensionalità in pittura riesce a rendere un’illusione di tridimensionalità.
E’ il caso di Rembrandt: se guardiamo alcuni suoi ritratti, hanno un flu, gli occhi e il naso sono molto più a fuoco, e questa è tridimensionalità. Rembrandt era un ammiratore dei Veneti: quando effettuarono un sequestro dei suoi beni, nella sua casa scoprirono dei Tiziano, che custodiva ed imitava.

L’eredità veneta

Non sono un nostalgico, sono le idee di oggi che ci dicono di tornare al biologico. Se dici “perfetta letizia”, “sono molto lieto”, già la parola deriva da laetamen: il letame era una ricchezza. In Ruzzante c’è un personaggio che cerca le merde, pagandole con un pomo; gli dicono: «Ma così piccolo il pomo?» «Ciò, guarda che merda piccola mi hai dato tu.» Ho fatto lo scenografo del Ruzzante, nella compagnia di Gigi Giarretta. Ruzzante aveva questo saper vedere nel povero, nel contadino, per quanto ignorante e incapace di parlare, l’astuzia, la sapienza che fino a vent’anni fa faceva dire ai nostri contadini: «Quello ha fatto troppi schei e troppo velocemente!» e ne diffidavano. Oggi si pensa: è bravo perché è ricco; invece è solo un plutocrate. La sapienza dei vecchi era critica: non soffro di non essere sior, perché essere sior è impossibile. Da quando ci hanno dato l’impressione che tutti possano diventare siori, i conti non tornano. C’era un senso del bene e del male, saper distinguere chi era onesto e chi no; mentre oggi è tutto relativo.

Note di Letizia Tasso

 


[1] Marco Vitruvio Pollione (80 a.C. circa  – 15 a.C circa), architetto e teorico romano dell’architettura, autore tra l’altro del trattato in 10 volumi De Architectura di grande interesse e fondamento per gli studiosi e gli artisti dell’Umanesimo.

[2] La Domus Aurea era la villa urbana di enormi dimensioni fatta edificare dall’imperatore Nerone dopo il grande incendio di Roma del 64 d. C. Dopo la morte dell’imperatore la villa venne spogliata delle sue ricchezze e sepolta sotto altre costruzioni, cosa che probabilmente consentì la sua conservazione. Riscoperta accidentalmente nel XV secolo, divenne meta di artisti – tra cui Michelangelo, Raffaello e Pinturicchio – che si calavano dentro la struttura ancora da scavare per copiarne gli affreschi, le famose grottesche.

[3] Ci si riferisce probabilmente ai richiami al torso del Belvedere, oggi conservato nei Musei Vaticani e ritenuto una statua mutila di Ercole, nella pittura michelangiolesca, ad esempio nella volta della cappella Sistina

[4] Paolo Doni detto Paolo Uccello (Firenze 1397 – 1475), pittore fiorentino appassionato di studi prospettici. Si forma a Firenze, dove torna dopo un viaggio a Venezia; opera qui ed a Prato ottenendo a Firenze importanti commissioni, come il Chiostro Verde di Santa Maria Novella e l’affresco del Monumento equestre a Giovanni Acuto a Santa Maria del Fiore. Sua caratteristica, soprattutto nel periodo più maturo, è la costruzione prospettica di cui si serve per creare scenografie fantastiche e visionarie.

[5] Piero della Francesca (Borgo San Sepolcro 1417 – 1492). Autore tra i principali del Quattrocento, capace di unire nelle sue opere arte, matematica, geometria, complesse questioni teologiche, filosofiche e collegabili all’attualità dei suoi tempi, portando la lettura dell’opera a più livelli. Tra i suoi capolavori le Storie della Vera Croce nella chiesa di S. Francesco ad Arezzo, la Pala Montefeltro oggi alla Pinacoteca di Brera ed il Battesimo di Cristo oggi alla National Gallery di Londra.

[6] Filippo Brunelleschi (Firenze 1377 – 1446) è stato architetto, ingegnere, scultore e orafo. Con Donatello e Masaccio viene annoverato tra gli iniziatori dell’Umanesimo artistico fiorentino. A lui si deve la concezione della prospettiva a punto unico di fuga. Tra i suoi lavori principali si trovano la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze – vero capolavoro ingegneristico – , l’ospedale degli Innocenti e la sagrestia vecchia della chiesa di San Lorenzo sempre a Firenze.

[7] Paolo Caliari detto Paolo Veronese (Verona, 1528 – Venezia, 1588) è uno dei principali pittori veneti del Rinascimento. Raggiunge il successo a Venezia, dove realizza capolavori come il soffitto della chiesa di San Sebastiano o la Cena in casa Levi per il refettorio del convento domenicano dei SS. Giovanni e Paolo (oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia) ed i riquadri per Palazzo Ducale. È attivo anche come abile frescante nelle ville della terraferma, tra cui ricordiamo qui villa Barbaro a Maser (TV).

[8] Giovanni Antonio Fasolo (Mandello del Lario, 1530 – Vicenza, 1572). Si forma presso la bottega di Veronese e poi avvia una carriera indipendente, affrescando con Giovanni Battista Zelotti la palladiana villa Caldogno e palazzo  Porto – Colleoni a Vicenza.

[9] Andrea Pozzo o Dal Pozzo (Trento, 1642 – Vienna, 1709) è stato teorico della prospettiva, architetto, pittore e decoratore esponente del tardo Barocco romano, creatore di complessi effetti ottici di sfondamento spaziale e prospettico. Tra i suoi capolavori si possono citare il soffitto della navata della chiesa di Sant’Ignazio a Roma, l’altare maggiore dedicato sempre al santo fondatore dei Gesuiti nella chiesa del Gesù sempre a Roma e il soffitto di palazzo Liechtenstein a Vienna con un Trionfo di Ercole ammiratissimo dai suoi contemporanei.

[10] Per encausto si intende una particolare tecnica pittorica che prevede l’applicazione sul supporto di pigmenti legati tramite cera mantenuti liquidi in un braciere e successivamente applicati con spatola o pennello e infine fissati a caldo con arnesi denominati cauteri o cestri. Questa tecnica, nota già ai Greci, ha avuto grande successo soprattutto presso i Romani. Ne sono rimaste poche testimonianze, come i ritratti del Fayyum e le pitture murali di Pompei. Anche Leonardo da Vinci si cimentò con l’encausto, tentando di realizzare con questa tecnica l’affresco della Battaglia di Anghiari per Palazzo Vecchio a Firenze.

[11] Johann Joachim Winkelmann (Stendal, 1717 – Trieste, 1768) è stato tra i massimi teorici del neoclassicismo, primo ad adottare la teoria dell’evoluzione degli stili cronologicamente distinguibili tra loro e autore della Storia del disegno presso gli antichi , dove però incorre nell’errore di considerare il candore del marmo greco come elemento imprescindibile per la purezza della scultura, anche se successivi studi dimostrano la policromia originaria delle statue greche antiche. Altro elemento fondamentale è la volontà di creare una sorta di bellezza ideale basata sul concetto di “nobile semplicità e quieta grandezza”, dove le proporzioni non rompono l’armonia delle parti e la figura non è agitata da emozioni eccessive.

[12] Johannes Vermeer (Delft, 1632 – 1675) è stato pittore olandese in grado di ricreare colori trasparenti con l’applicazione di piccoli punti ravvicinati resa più viva dalla ricerca di effetti coloristici, dovuta anche alla grande cura nella preparazione dei colori ed alla ricercatezza dei pigmenti. Tra i suoi capolavori ci sono la Fanciulla col turbante, la Lattaia, la Merlettaia e alcune vedute di Delft.

[13] Jan van Eyck (Maaseik, 1390 – Bruges, 1441), pittore fiammingo noto per il suo stile basato sulla resa analitica della realtà che ebbe grande influsso in tutta Europa. Perfezionò anche la tecnica di pittura ad olio, che sostituì gradualmente l’utilizzo della tempera. Realizzò tra le sue opere più importanti il polittico di Gand, il ritratto del coniugi Arnolfini e la Madonna del cancelliere Rolin.

[14] Jan Brueghel il Vecchio (Bruxelles, 1568 – Anversa, 1625) detto dei Velluti per le sue tonalità vellutate o forse per la sua predilezione per gli abiti di velluto è stato autore prolifico di nature morte e paesaggi.

[15] Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai detto Masaccio (Castel San Giovanni in Altura, 1401- Roma, 1428) è stato con Brunelleschi e Donatello tra gli inziatori dell’Umanesimo fiorentino, innovatore della pittura in cui unisce la visione prospettica brunelleschi e la forza plastica della scultura donatelliana. Tra le sue opere principali si ricordano gli affreschi della cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze, realizzati in collaborazione con Masolino da Panicale e la Trinità di Santa Maria Novella sempre a Firenze.

[16] Gaspare Vanvitelli, nato Gaspar van Wittel (Amersfoort, 1653 – Roma, 1736) è stato pittore vedutista di origine olandese e naturalizzato italiano, autore di varie vedute di Roma e Napoli, realizzate con l’uso della camera ottica. Il figlio Luigi fu importante architetto  e curò l’edificazione della Reggia di Caserta e dell’acquedotto Carolino per  il re di Napoli Carlo di Borbone.

[17] Questa citazione viene da Vasari, che la riferisce come detta da Michelangelo nei confronti dell’opera di Tiziano giunto in viaggio a Roma.

[18] Antonello da Messina (Messina, 1429 o 1430 – 1479) è stato importante pittore quattrocentesco, capace di fondere la pittura fiamminga con quella italiana apprendendo la tecnica fondamentale della pittura ad olio. Dalla Sicilia si sposta a Roma, in Toscana, nelle Marche ed a Venezia, dove entra in contatto con Giovanni Bellini, per ritornare infine in Sicilia. Tra le sue opere principali ci sono il Ritratto di anonimo marinaio del museo Mandralisca di Messina, la Madonna Salting oggi alla National Gallery di Londra e l’Annunciata di Palazzo Abatellis a Palermo.

[19] Gaspard-Felix Tournachon detto Nadar (Parigi, 1820 – 1910) è stato fotografo, giornalista e caricaturista francese, in rapporto con i più importanti  artisti, pensatori e letterati del suo tempo, come Bakunin, Delacroix e Baudelaire, molti dei quali ritratti nelle sue caricature. Nel suo studio ospitò nel 1874 la prima esposizione degli impressionisti contribuendo a farli conoscere.

[20] Francesco Paolo Michetti (Tocco da Casauria, 1851 – Francavilla al Mare, 1929), pittore italiano, fu molto interessato alla fotografia come molti altri artisti della sua epoca, utilizzandola prima come procedimento di studio per i soggetti dei suoi quadri, poi come mezzo espressivo autonomo. Creò intorno a sé un importante cenacolo letterario ed artistico di livello nazionale, con figure come Matilde Serao e Gabriele D’Annunzio.

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